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Giornale on line registrato al Tribunale di Pavia n. 2/2016

TRA LE PIEGHE DELLA BANDIERA AMERICANA – INTERVISTA A MAX FERRERO

Foto TRA LE PIEGHE DELLA BANDIERA AMERICANA – INTERVISTA A MAX FERRERO

INTERVISTE

Dimentichiamo Wall Street, le spiagge assolate della California, i divi di Hollywood e le puntate nei coloratissimi casinò di Las Vegas. Abbandoniamo l’America che siamo abituati a conoscere anche attraverso le sue rappresentazioni nei film e nelle serie tv ed addentriamoci in questa “Matrix Americana”. Una realtà a tratti sconvolgente, fatta di dolori, di sacrifici e di enormi contraddizioni. La forbice tra i ricchi e i poveri è molto ampia e non ci sono ammortizzatori che tengano: quando cadi, in America, sprofondi in situazioni disperate. Gli scatti acuti e severi di Max Ferrero e Renata Busettini ci riflettono uno spaccato di una nazione, di una superpotenza mondiale che non è solo “oro che luccica”. L’America che ci raccontano è fatta di storie, di persone, di realtà inguaribili. E’ fatta dai minatori della Rust Belt (la cintura di ruggine) della Pennsylvania, dalle famiglie che vivono al confine con il Messico e di tutti i problemi che ne derivano. E’ l’America del vecchio signore che ogni giorno si reca alle sbarre del confine per parlare con una sua amica messicana al di là del muro, della signora che ha visto la sua amata e fiorente cittadina spegnersi poco alla volta diventando una landa desolata, dell’Indiano che ha speso tutti i suoi risparmi per curarsi e che chiede l’elemosina per ritornare nella sua riserva o del padre nella casa su ruote che segue le rotte del lavoro stagionale, deformato nel fisico e nello spirito. E’ l’America dell’amore per le armi e del lato oscuro di un sogno, quello americano, che ha molte, forse troppe, controindicazioni…
In un martedì pomeriggio ho potuto chiacchierare con Max Ferrero, in macchina tra un impegno di lavoro e l’altro, del suo ultimo progetto, “America Fi(r)st”, in mostra a Canelli fino al 13 giugno al Salone Riccadonna. Subito mi chiede di dargli del tu, ed inizia a raccontarmi, nonostante i problemi di comunicazione che spesso la tecnologia dei cellulari ci riserva, del suo lavoro in modo così appassionato e travolgente che mi ha stupito.
P: Come è nata la Tua passione per la fotografia?
M: Più che passione è una professione; è nata come una passione osservando mio padre che si divertiva tanto a scattare fotografie. Poi quasi da subito è diventata qualcosa di più, io sono anche perito fotografico e già in giovane età ho voluto studiare fotografia. È sempre stato di più di un divertimento...
P: La fotografia per Te è…
M: Principalmente una forma di racconto basato sul vero. Ho sempre lavorato nell’ambito del fotoreportage e non dell’invenzione o della narrazione ma del racconto legato a delle storie vere. Poi queste storie sono sempre andato a cercarle in un ambito sociale perché sono sempre stato interessato a schierarmi da una parte, di solito quella dei più deboli ma a volte non c’è una parte dove schierarsi, c’è la voglia di raccontare qualche cosa. I miei lavori sono sempre improntati alle persone: negli anni ho imparato a fotografare la gente ma anche a interagire con loro, farmi accettare e farmi raccontare le loro storie e tradurle in immagini. La fotografia è una possibilità di racconto.
P: Il Tuo occhio critico sul mondo che ci circonda Ti ha portato in moltissimi luoghi. I Tuoi reportage, nella maggior parte dei casi, sono progetti personali o commissionati?
M: Una volta erano più del 50 per cento commissionati dalle testate giornalistiche oppure dalle agenzie fotografiche. La crisi che dura da tanto tempo, non solo economica ma soprattutto editoriale, ha portato a poco a poco i giornali a chiedere sempre meno e di conseguenza le agenzie al fallimento. Quindi ultimamente mi dedico soprattutto a progetti miei personali e poi se riesco a “piazzarli” sono felice. Il mio core business ora è più spostato verso l’insegnamento e verso la fotografia commerciale ma il mio cuore è rimasto nel reportage. Ad esempio la storia che raccontiamo con “America Fi(r)st” era a rischio perché se non trovavamo un editore che avesse avuto intenzione di pubblicare un libro sarebbe rimasta nel cassetto invece per fortuna abbiamo trovato Umberto Allemandi che ha creduto in noi e nel progetto e siamo riusciti a realizzare qualcosa di tangibile.
P: Visitando il Tuo sito ufficiale ho potuto avere accesso ad uno spaccato del Tuo modo di fare fotografia e dei luoghi che haI documentato. C’è qualche posto o situazione che Ti ha colpito particolarmente e che è rimasto nel cuore?
M: Tanti, tutti a dire il vero. Quando hai un ricordo fresco la sensazione è sempre piacevole. Il lavoro fatto negli Stati Uniti adesso ha una forza molto alta. Nel 2020 per esempio abbiamo fatto un altro viaggio molto più vicino, a Taranto, per documentare quella realtà e, pur essendo in Italia, vicinissima, mi è rimasta nel cuore perché i tarantini sono stati fantastici con noi. Diventa però difficile pensare ai viaggi più distanti nel tempo, magari di venti o trenta anni fa. Ti rimangono in testa e prendono un valore aggiunto perché era un periodo in cui eri giovane e avevi tante esperienze da fare. Non sai più poi valutare se quel viaggio era eccezionale perché era realmente eccezionale o lo stai valutando così perchè eri giovane e facevi cose diverse. Ogni viaggio ha i suoi lati positivi, poi ci sono quelli che ti lasciano un gusto più piacevole in bocca mentre altri un ricordo eccezionale o più malinconico.
P: Hai intrapreso viaggi per documentare situazioni in luoghi critici del mondo. Come Ti prepari a queste esperienze in maniera sia pratica che psicologica? Sono momenti imprevedibili in cui sai quando e come parti ma non sai l’evolversi della situazione…
M: Ho iniziato come un pazzo. Il primo servizio che ho fatto è stato subito di guerra. Sono andato in Nicaragua a raccontare la storia della nazione che si era liberata da pochi anni dal giogo della dittatura. Nel frattempo continuava una guerra interna. Io sono andato lì, forse se si è troppo preparati non si va perché bisogna essere pazzi. Se sai poi come sono le cose ti organizzi meglio… in quel viaggio non ho rischiato di morire per le pallottole ma di fame. L’esperienza è fondamentale e non te la puoi fare se non sul campo perché non esiste un manuale o guide che ti spiegano come affrontare certe situazioni. Sarebbe forse stato meglio iniziare con tematiche un po’ meno difficoltose. Nei primi anni ho lavorato molto in situazioni di conflitto, ho seguito la guerra jugoslava dal secondo giorno che era iniziata, in Slovenia, fino alla fine raccontando anche tutta la questione del Kosovo. Negli ultimi quindici anni non ho più seguito servizi fotografici legati a situazioni di guerra e di pericolo di vita immediato, poi il pericolo di vita ce lo hai in mille maniere, persino andando in auto se vogliamo essere precisi. Ho affrontato temi meno rischiosi ma sempre legati al sociale e la preparazione è fondamentale, bisogna sapere bene cosa stai andando ad affrontare. Non credo nel giornalismo non di parte: chiunque racconta una storia e fa giornalismo quando ci mette la sua anima diventa di parte e prende una posizione. Poi ci sono argomenti in cui la posizione è comune mentre altri no. Se tu conosci l’argomento che stai per affrontare capisci da che parte stai e affronti la situazione con un certo piglio. Poi bisogna essere elastici mentalmente: mentre fai un lavoro puoi anche immaginare che una determinata crisi o problematica non sia mai frutto totalmente di una colpa e non c’è sempre solo un colpevole. Devi essere pronto ad avere visioni più ampie però devi avere un’idea, se non ce l’hai vai a caso e cerchi l’avventura. Ma questo è un ambito che non mi interessa. Mi interessa scoprire delle cose, metterci il mio pensiero, restituire dei racconti.
P: Veniamo alla mostra sul progetto “America Fi(r)st” presente a Canelli… Un titolo dalle molteplici interpretazioni…
M: Il titolo è sempre estremamente importante, a volte bisogna mediarlo con l’editore mentre questa volta no. All’inizio il progetto si intitolava “L’America alle porte” perché volevamo raccontare un luogo distante che in realtà è molto vicino, volevamo raccontare perché una grande democrazia come quella americana fosse riuscita ad eleggere un presidente così divisivo e populista. Quindi all’inizio era “L’America alle porte” intesa in maniera duplice sia come persone ritratte spesso davanti alle porte delle loro case ma anche l’America con tutte le sue problematiche alle porte di casa nostra. Poi invece man mano che questo progetto cresceva, è durato quattro anni, ci siamo accorti che uno degli slogan utilizzati da Trump (“America First”) poteva funzionare moltissimo ma con una piccola modifica nostra, mettendo tra parentesi la “r” di “first”. In questa maniera chi non vuole vederle, vede “America First” ma chi vede le parentesi, come le menti più curiose, comincia a comprendere che le parentesi significano qualcosa e che il titolo può essere anche “America Fist” ovvero pugno e quindi quel pugno lo lasciamo interpretare, ma quando lo abbiamo pensato era avvenuta l’uccisione di George Floyd e quindi abbiamo pensato ai pugni neri alzati ma anche ad un pugno nello stomaco. Pensiamo sempre che l’America sia tutto rose e fiori, il sogno americano invece no.
P: Il progetto e il libro che ne deriva sono frutto di un singolo viaggio o di più tappe scandite nel tempo?
M: Sono più viaggi nel tempo. L’idea originaria era di effettuare un viaggio per ogni capitolo. I capitoli sono quattro perché quattro erano gli anni della presidenza Trump inizialmente. Sono quattro capitoli che parlano della ricerca del perché la gente lo ha votato e delle storie che abbiamo raccolto nei diversi luoghi che abbiamo visitato.
P: Per questo libro avete deciso di utilizzare esclusivamente il bianco e nero. Come mai?
M: Abbiamo scelto il bianco e nero quasi fin da subito perché le immagini che abbiamo fatto, almeno molte di queste, potrebbero essere decontestualizzate. Noi abbiamo legato il progetto a Trump perché Trump è stato un presidente anomalo e queste foto collegate a lui hanno un impatto maggiore. Queste foto potevano essere state fatte prima o anche dopo: l’America è un contrasto pazzesco tra benessere e malessere, tra popolazioni che sono molto più agiate delle popolazioni europee ma nello stesso tempo sono contornate da migliaia e migliaia di persone che sono sull’orlo della miseria. Il bianco e nero in molte situazioni decontestualizzava e toglieva la dimensione temporale alla fotografia e diventavano quasi universali così abbiamo deciso di concentrarci sul contenuto, su ciò che ci raccontavano le persone con cui parlavamo. Noi viaggiavamo alla ricerca di storie: a volte c’era solo l’immagine, a volte solo la storia ma abbiamo tenuto solo quelle che avevano entrambe per il progetto.
P: Questo progetto è nato insieme a Renata Busettini. Com’è stato essere testimoni insieme di questa realtà così differente, ad un’America così lontana da quella del nostro immaginario comune (la potenza, la grandezza, l’economia)?
M: Secondo te, un nigeriano, per esempio, che arriva in Italia non si trova nella stessa condizione di noi in America? Un nigeriano, sempre per esempio, arriva in Italia e la immagina come il Paese del benessere e poi scopre che c’è la disoccupazione, che siamo pieni di persone che rischiano il lavoro, che fanno fatica ad arrivare a fine mese… però lui prima questa cosa non la sapeva. Loro (gli americani) comunque stanno molto peggio di noi , noi pensiamo di stare peggio degli americani poi invece si scopre che ogni mondo è paese e le cose sono in maniera diversa da come avevamo immaginato. Io e Renata siamo compagni anche nella vita quindi fare viaggi insieme per noi è più semplice, siamo appassionati di viaggio e di conoscenza. Quando abbiamo fatto il primo viaggio negli Stati Uniti lo abbiamo fatto da turisti ma abbiamo iniziato ad intravedere alcune cose che potevano essere interessanti, avevamo già delle idee. Le idee poi sono partite nel momento in cui è diventato presidente Trump: l’America, fotografarla adesso o dieci anni fa era la stessa, Trump è stata una parentesi come la “r” del titolo del libro che però ha inciso molto. Ci siamo chiesti: come è possibile che in un luogo così ci siano tantissimi laureati e si possa credere ad una delle promesse più assurde che abbia fatto ovvero la costruzione del muro di separazione tra Stati Uniti e Messico pagato dai messicani. Eppure esistono. Ma nello stesso tempo ci si può chiedere la stessa cosa dell’Italia: non è poi così vero che siamo così distanti dall’America. Trump ha parlato alla pancia delle persone e le persone vogliono sempre la stessa cosa: il problema è poi che alcune di queste promesse non sono fisicamente realizzabili ma il populismo di cui si è ammantato ha omesso le controindicazioni a queste scelte.
P: Il libro e la mostra sono divisi in quattro capitoli che raccontano questo “lato oscuro” degli Usa…
M: Il primo capitolo è dedicato ad una zona ex industriale dove lui ha promesso di riportare lavoro. Poi il secondo è ambientato nella zona del confine con il Messico dove ha dichiarato che avrebbe costruito un muro e bloccato tutti i migranti. Il terzo è incentrato sulle armi, non perché Trump abbia fatto promesse particolari agli Americani ma lo abbiamo legato al progetto perché moltissimi produttori di armi e munizioni hanno sostenuto la campagna elettorale di Trump. Il quarto capitolo, a chiusura, è dedicato un po’ al sogno americano messo tra virgolette: esiste il sogno americano ma ha un costo e per ogni persona che lo realizza (soprattutto economicamente) c’è qualche decina di persone che vive un incubo. Abbiamo trattato tutto ciò che il sogno americano può procurare come controindicazioni e di conseguenza cosa hanno venduto certi politici americani per essere eletti.
P: L’introduzione al libro e ai diversi capitoli è curata dal giornalista Alan Friedman… come è nata questa collaborazione?
M: Noi non conoscevamo Alan Friedman, lo avevamo visto in diretta a Torino un anno dopo l’elezione di Trump in un incontro con un altro giornalista, Francesco Costa, in cui si parlava dell’anno di Trump facendone un bilancio. Noi avevamo già fatto il primo viaggio negli Usa e quando abbiamo sentito la conferenza ci siamo detti che i nostri viaggi dovevano continuare e che uno dei due doveva scriverci i testi. Li abbiamo contattati tutti e due, entrambi gentilissimi nei nostri confronti, poi Francesco Costa per impegni ha ritirato la sua candidatura e Friedman invece ha accettato però dettando delle condizioni: vedere prima tutte le fotografie e poi voleva che il lavoro uscisse in un libro, quindi la ricerca di un editore. Le foto gli sono piaciute, abbiamo trovato l’editore quindi ci ha scritto i testi e si è dimostrato una persona meravigliosa e disponibile. A differenza di tanti altri giornalisti che abbiamo contattato per questo progetto e che non ci hanno nemmeno risposto perché non eravamo volti conosciuti.
P: La mostra dopo Canelli mi hanno detto “viaggerà” verso Torino…
M: Il libro è uscito in periodo di Covid e quindi è stato un azzardo perché non c’era la possibilità di fare eventi. Quella di Canelli è la trentaseiesima presentazione, in questo momento ci muoviamo un po’ a vista perché le mostre sono ancora contingentate. Ci sarà prossimamente un’esposizione a Torino presso la galleria di un fotografo, Claudio Cravero, con una serata organizzata ma mi piacerebbe per il futuro creare un evento che preveda la partecipazione di Alan Friedman e dell’editore Umberto Allemandi ma questo sarà possibile solo dopo aver valutato la situazione Covid e quando sarà concesso creare eventi senza ingressi contingentati, speriamo al più presto.
Una mente curiosa e acuta quella di Max Ferrero che sa cogliere le storie e congelarle nel tempo con i suoi scatti a cui auguro vivamente di poter girare per l’Italia (ma anche all’estero) perchè le storie di cui lui e Renata sono stati testimoni possano essere raccontate attraverso la visione a moltissime persone perché impariamo che America, Italia o altra nazione, siamo tutti sullo stesso pianeta e che là fuori c’è bisogno di tanta sensibilità, come quella che hanno dimostrato nei loro scatti .
“America Fi(r)st” – L’America di Trump è visitabile a Canelli presso il Salone Riccadonna (Viale Libertà 25) dal 5 al 13 giugno (venerdì – sabato e domenica dalle 10,30 alle 12 e dalle 17 alle 19)- ingresso contigentato. L’evento è organizzato in collaborazione con “Fuoco e Colore” e “Il Segnalibro” di Barbara Brunettini e Stefano Sibona. Per chi lo desiderasse è possibile acquistare il libro legato alla mostra edito da Umberto Allemandi.
GLI AUTORI DEL LIBRO SI PRESENTANO
Renata Busettini
Sono nata a Milano nel 1964 e mi sono trasferita a Torino agli inizi degli anni ottanta. Ho avuto la grande fortuna di viaggiare moltissimo e la fotografia da sempre è stata una mia buona compagna di viaggio. Al ritorno da ogni itinerario, ero carica di nuove esperienze e di tanti rullini di foto ricordo. La mia passione per i viaggi non è cambiata ma le mie spedizioni non sono più il motivo per scattare, ora la fotografia è diventata il motivo per viaggiare. E così le immagini ricordo hanno lasciato spazio a progetti più complessi raccontati per immagini e parole. Prediligo la fotografia documentativa e negli ultimi lavori ho scelto «il ritratto» come strumento di racconto. Il diletto è il motore che sprona il mio desiderio per vedere il mondo attraverso la fotografia. www.renatabusettini.com
Max Ferrero
Ho pubblicato sulle maggiori testate italiane e i miei reportage si sono concentrati e specializzati nell’ambito della ricerca sociale. Alcuni miei fotoreportage sulla guerra nell’ex Jugoslavia, sul Kurdistan iracheno, il Centro America, l’immigrazione extracomunitaria, la cultura Rom, gli ospedali psichiatrici e le carceri sono stati oggetto di pubblicazioni e mostre per Associazioni, Musei o città come Torino, Milano, Lucca, Roma, Bruxelles, ecc. Ho collaborato con le agenzie fotogiornalistiche Lucky Star, Photodossier, Linea Press, Blow Up e AGF. Dal 2011 sono professore di fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Novara e dal 2018 presso l’Istituto di Arte Applicata e Design di Torino. Nel 2017 ho pubblicato con la casa editrice Boopen il libro di tecnica base “Tre gradi di profondità fotografica” e nel 2018 il successivo libro di approfondimento “La foschia dell’immaginazione”. www.maxferrero.it

28/05/2021

Paola Doria

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