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Giornale on line registrato al Tribunale di Pavia n. 2/2016

I pensieri di Quinto Fabio Cunctator durante il rogo di Roma

Foto I pensieri di Quinto Fabio Cunctator durante il rogo di Roma

OPINIONI

Certe materie sono una palestra per la mente. Quando studiavo latino alle superiori (secoli fa ormai), c’era sempre una figura che balzava alla mia attenzione: lui si chiamava Quinto Fabio Massimo Verrucoso. Nato nella gens Fabia nel 275 a.C, fu cinque volte console e dittatore e si guadagnò, oltre al nomignolo di “Verrucoso” (chissà perché) anche quello di Cunctator (ovvero il temporeggiatore). La sua strategia era quella di dilazionare nel tempo, di temporeggiare appunto, di allungare il brodo, logorando le forze nemiche senza combattere in campo aperto. Questa sua unicità, questa sua particolare strategia, considerata alquanto codarda, non era ben vista dai Romani che erano fieri e decisi a scontrarsi apertamente con il nemico, secondo i valori che gli erano stati insegnati nel mos maiorum, i valori della dignitas, della virtus militaris ecc… Il nostro Verrucoso a furia di tirare la corda aveva rotto a tutti. Temporeggiare e dilazionare nel tempo non è sempre la tecnica migliore. Conservare troppo a lungo, il temporeggiare, non porta quasi mai benefici. A Roma a quei tempi non esistevano i frigoriferi bensì delle cellae nivariae ovvero dei luoghi sotterranei dove i nobili (ovviamente era roba da ricchi principalmente) riponevano i cibi che dovevano conservarsi con della neve proveniente dalle cime dell’Etna. Purtroppo queste celle non avevano le performance dei moderni frigoriferi così capitava che se si decideva di rimandare continuamente il banchetto in onore del paterfamilias (il capofamiglia) il cibo andava a male (e più in fretta di oggi aggiungerei io). Quindi quando si faceva scorta di cibo per una festa o una ricorrenza bisognava valutare bene la situazione, fissando delle date precise e calcolando molto bene il quantitativo di cibo da acquistare anche in base agli invitati. In caso contrario ci si sarebbe trovati impreparati al banchetto o privi di cibo, il caos più totale per la mancanza di presa di posizione e di azione. Tra i tanti personaggi che fecero Roma ci fu anche l’imperatore Claudio, detto “lo zoppo” per la sua andatura claudicante. Lui era un letterato, appassionato di storia e lingua etrusca, che tutti consideravano scemo per la sua indole non bellicosa e per l’aspetto. “Scemo” com’era sopravvisse alle purghe di Tiberio e Caligola (quello che nominò senatore il suo cavallo) e quando Roma si fu disfatta finalmente di quest’ultimo pazzo, i militari lo nominarono imperator a suo malgrado in quanto unico discendente della dinastia giulio claudia (quella di Cesare e Augusto per intenderci). Ma lui sapeva benissimo che per governare il popolo di Roma e farsi amare dal Senato non bastava farsi proclamare dalle forze militari ed era stato “messo lì” senza particolari diritti, con la forza. Quindi escogitò una trovata per tenere a bada il popolino: perché non facciamo, disse, dea mia nonna, Livia (che di divino non aveva nulla, anzi), moglie di Augusto (che era più ganzo di me) per decretare finalmente il mio diritto a regnare? E così fece per sopravvivere. Claudio lo zoppo, Claudio lo scemo, poi tanto scemo non era… C’è da stare attenti a dare potere agli scemi perché questi potrebbero riservare sorprese inaspettate e rivoltarsi contro. A quell’epoca il Senato era soltanto una facciata, un organo privo di quella dignitas di un tempo, che si limitava a legiferare sulla scostumatezza degli abiti femminili in voga a quei tempi o cose del genere. Erano bambocci che litigavano tra loro, tirando chi più chi meno, l’acqua al loro mulino, con parole prive di fondamento che non sfociavano in nessun fatto concreto. Il vero potere era quello nascosto, quello del Palazzo, quello che ufficialmente era in mano allo zoppo ma di fatto era custodito avidamente dai suoi abilissimi e astutissimi segretari che si arricchivano alle spalle del Popolo Romano, legiferando nel silenzio più assoluto della notte, per quello che faceva comodo a loro. Erano più ricchi di Creso e approfittavano delle debolezze dell’imperatore Claudio (alcol e donne), magari facendogli firmare qualche editto in stato di ubriachezza, dopo aver scoperto le tresche della giovane e procace moglie Messalina. Quindi sta di fatto che Roma versava nel caos più totale, gestita da incompetenti che, in tempo di crisi, pensavano solo ai loro interessi. C’è chi si rifugiava nel misticismo per scongiurare la fine del mondo. I vecchi e noiosi dei latini erano stati soppiantati da strani figuri provenienti da Oriente e dai nomi impronunciabili. I templi di questi nuovi dei sorgevano come funghi e i sacerdoti attiravano i fedeli, la concorrenza era spietatissima, con trucchetti da quattro soldi: porte che si aprono grazie al respiro divino (solo frutto di ingegnosi macchinari), indemoniate che fanno predizioni in tetre caverne (ben lautamente ricompensate per dare i “giusti” vaticini), processioni farlocche alla Dea Gatto, fiamme sacre innalzate al divino Ahura Mazda (non quello della macchina), l’esposizione del sudario di Osiride risorto dopo il suo viaggio nell’Oltretomba... Poi un giorno arrivò quel figliastro di Claudio, un po’ strano, Lucio Domizio Enobarbo. Lui sognava una Roma diversa, nuova, che non aveva tempo per tutte quelle stronzate dei mos maiorum. Quel popolino non lo amava, era alla fame e le brioches erano sostituite da gru arrosto, murene e mammelle di scrofa cotte nel latte. Bisognava disfarsi di chiunque fosse contro di lui con maniere più forti di quelle prese da Silla (che adottò le liste di proscrizione). Si rifugiò quindi nella sua villa, con la sua lira in mano e cantava alla città, che stava andando in fiamme. Il caos e la disperazione regnavano tra il popolino che perdeva i propri cari negli incendi, amanti che non potevano ricongiungersi, persone che non potevano spostarsi da un punto all’altro di Roma per andare a lavorare o a trovare i genitori. E quella Roma, il cuore di Roma, bruciava: le fiamme erano alte nelle case della gente mentre nelle domus patrizie vicine all’imperatore regnava la calma più assoluta. Perché nelle fiamme ci finiscono sempre gli onesti, ci finisce sempre la gente comune mentre ai ricchi e ai “furbi” non succede mai nulla e per loro le regole non sono applicabili, nessun vigiles li fermerà per dar loro la multa perché privi dei documenti che attestano di non essere degli appestati. Nerone non è Cesare e nemmeno Augusto che passarono alla storia ma, incendio a parte, più simile a un Otone o un Vitellio (che durarono pochi mesi ciascuno), tutti privi di ogni moralità e capacità decisionale. Intanto nelle cellae nivariae le provviste stanno marcendo, la gente muore di fame, è stufa della situazione, il “virus” degli incendi non smette di dare tregua e il fumo ricopre ogni cosa, anche la più bella. Roma è stanca, è stremata e non ne può più di quel pazzo poeta piromane. Da quel fumo potrebbe scorgersi l’ombra di uno Spartaco, pronto a liberarla. Ps. Non essendo una storica ho magari, anzi sicuramente, romanzato un po’ le cose. Roma non è stata fatta in un giorno ma Roma non è lontana, Roma è ancora qui, viva e vegeta. Roma siamo noi. E la Storia è un ciclo che si ripete…

27/04/2020

Paola Doria

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